Capitolo 1 – Il giorno in cui suor Bernadette rotolò giù dallo scalone principale del Collegio di Sant’Osmanna
Il giorno in cui suor Bernadette rotolò giù dallo scalone principale del Collegio di Sant’Osmanna era iniziato come ogni altro martedì. Le prime due ore di lezione si erano svolte in relativa calma, sebbene le ragazze avessero mostrato sprazzi di sporadica leggera irrequietezza, come le impercettibili scintille di elettricità che pervadono l’aria subito prima di un temporale. Durante l’ora di francese si sarebbe dovuto decidere come assegnare i ruoli principali della commedia di Molière (in realtà solo un florilegio, un estratto curato da suor Bernadette, che era realisticamente conscia dell’impossibilità non solo di far imparare a memoria alle ragazze cinque atti di testo in francese, ma anche di mantenere desta l’attenzione del pubblico per un tempo così lungo), un autentico evento, capace di movimentare un poco la calma superfice della vita quotidiana a Sant’Osmanna.
Il Collegio di Sant’Osmanna godeva di eccellente reputazione da oltre 157 anni e aveva sfornato generazioni di signorine dotate di buona cultura e raffinate maniere, i genitori delle quali si sentivano totalmente rassicurati dall’ambiente dove le loro figlie venivano traghettate oltre il rischioso fiume dell’adolescenza. Tutti sapevano che nulla d’inaspettato o pericoloso sarebbe mai potuto capitare al Collego di Sant’Osmanna.
La pioggia aveva ricominciato a cadere, o forse non aveva mai smesso. Nonostante le rispettabili dimensioni delle alte finestre, vagamente gotiche, che dominavano il vasto atrio, l’incombente penombra suggeriva l’immagine del Collegio della saga di Harry Potter piuttosto che quella della serena dimora delle Piccole Suore del Sacro Cuore, ma suor Bernadette non aveva mai visto nessun film di Harry Potter. Indossava, come sempre, una gonna a pieghe grigia chiara, che scendeva fino alla metà del suo polpaccio ben tornito, e una camicetta bianca, impeccabilmente stirata, a maniche lunghe che sbucavano fuori da un golf di lana blu, a metà sbottonato. I suoi capelli, tagliati corti, che il Concilio Vaticano II aveva liberato dall’obbligo del velo, erano leggermente scomposti, disegnando capricciose piccole spirali ai lati delle sue guance paffute e davano al suo viso la stessa attonita espressione di un vecchio cherubino.
Suor Bernadette teneva in mano una grande quantità di cartelline che contenevano i fogli freschi di stampa da distribuire alle ragazze; aveva minuziosamente scritto i testi in francese su due colonne, con una breve sinossi in inglese, per aiutare le studentesse che avrebbero dovuto memorizzarli. Come sempre era un poco in ritardo, tutte le studentesse avevano già preso posto nelle loro classi e l’atrio era completamente deserto. La suora sperava ardentemente che la Reverenda Madre Superiora fosse molto occupata nel suo studio, perché davvero non aveva alcun desiderio di sentirsi sulla schiena quegli occhi gelidi e pieni di rimprovero, che la sgridavano silenziosamente per il suo ritardo, ancora più sonoramente di una voce irata.
“Santa Caterina, ti prego, aiutami a essere una buona insegnante, a tenere sotto controllo le mie classi, ad avere un buon rapporto con le mie studentesse, a essere comprensiva e gentile con ognuna di loro e, più di ogni altra cosa, ti prego, tieni la Madre Superiora lontana dal pianerottolo proprio adesso, fino a che sarò al sicuro dentro la classe”.
Suor Bernadette stava sforzandosi di fare l’abitudine agli occhiali bifocali da quando, pochi mesi prima, dopo aver compiuto cinquanta anni, si era resa conto che la sua vista non era più esattamente quella che era stata; ma ancora non riusciva a mettere a fuoco esattamente una piccola zona indefinita piazzata più o meno a livello dei suoi piedi, lungo la linea immaginaria che separava le due parti componenti la lente dei suoi occhiali. Stava esitando tra la possibilità di correre giù freneticamente per i gradini, per non approfittarsi troppo della generosa pazienza di santa Caterina, che stava validamente tenendo occupata la Madre Superiora da qualche altra parte, e la più saggia scelta di sistemare meglio il carico di cartelline che reggeva tra le braccia e badare a dove metteva i piedi, nella leggera foschia provocata dall’effetto bifocale. Ma non ebbe il tempo di decidere, perché qualcosa – o qualcuno – prese la decisione per lei. Percepì, o le sembrò di percepire, una leggera ma decisa pressione sulla schiena e uno dei tacchi delle sue scarpe, scarpe comode con solidi tacchi quadrati, mancò il bordo del gradino che si accingeva a scendere. Si rese conto di perdere l’equilibrio e di rotolare giù, sospinta dal suo stesso slancio.
“Santa Vergine Maria” avrebbe voluto sussurrare, ma poté solo emettere un profondo grido di spavento, mentre non riusciva a frenare l’effetto della caduta o ad aggrapparsi al mancorrente, avendo entrambe le mani occupate dalle cartelline.
Suor Bernadette allargò le braccia e mollò la presa sulle cartelline solo dopo uno o due secondi, quando aveva già rotolato e rimbalzato malamente per tutta la rampa di scale. Tutti i fogli coperti dalle imperiture parole di Monsieur Jean-Baptiste Poquelin svolazzarono attorno a lei come uno stormo di colombe terrorizzate, ma Suor Bernadette non poteva vederli. Giaceva su un fianco al fondo della scalinata, sul pavimento di marmo immacolato e scintillante, e sembrava una vecchia bambola di stracci, abbandonata da una bambina capricciosa che le aveva preferito un nuovo giocattolo.
“Santa Vergine Maria, Benedetta Madre, sono qui, sono in pace, nel tuo regno celeste, mio Signore, sia fatta la tua volontà”. Ancora una volta Sorella Bernadette non fu in grado di pronunciare le parole che aveva appena formulato nel pensiero. Aprì gli occhi, sentendosi del tutto immateriale. La sua anima era piena di gioia nella contemplazione dei benedetti volti degli angeli che la guardavano; poteva ben vedere di essere circondata da angeli, che meravigliosi occhi avevano gli angeli, esattamente come si era immaginata di vederli un giorno. Per un momento ebbe la strana impressione che uno degli angeli assomigliasse pericolosamente a Fiona O’Shea, una delle sue allieve più turbolente, la stessa fiammeggiante capigliatura rossa, lo stesso perfetto piccolo naso appuntito, gli stessi scintillanti occhi blu. No, non poteva certo trattarsi di Fiona, prima di tutto Fiona non aveva nessun motivo per trovarsi ora in paradiso e poi Fiona aveva sempre un’espressione derisoria e scherzosa negli occhi, mentre gli occhi di quell’angelo erano pieni di affetto, pietà e compassione, esattamente quello che uno si aspetta da un angelo.
“Suor Bernadette, Suor Bernadette, riesce a sentirmi?” Senza dubbia era la voce di Fiona.
Un’altra voce familiare risuonò stentorea dall’alto dei cieli o, come sfortunatamente sembrava più probabile, solo dalla cima della scalinata:
“Che cosa è successo? Suor Bernadette è cosciente? Non toccatela, non muovetela. Chiamo subito un’ambulanza. Qualcuno si limiti a coprirla con una coperta, ma assolutamente non provatevi a spostarla. Fiona! Non stare lì a gingillarti, vai in infermeria a chiamare l’infermiera di turno”.
“Sono ancora in vita” pensò suor Bernadette “Sono ancora in vita, sarebbe impossibile trovare Fiona O’Shea e la Reverenda Madre in paradiso, entrambe contemporaneamente. Forse non sono ancora morta, ma morirò presto, dov’è il mio rosario e dove sono le mie braccia? Non le sento più…” e svenne di nuovo, sprofondando in una compassionevole dimensione dove lei ebbe l’impressione di sentire la ninna-nanna che la sua mamma le cantava sempre “Too-ra-loo-ra-loo-ral, Too-ra-loo-ra-li, Too-ra-loo-ra-loo-ral, hush now, don't you cry!”.
Fu assicurato che l’ambulanza sarebbe arrivata prontamente. Non c’era motive di dubitarne poiché nessuno aveva mai osato prendere alla leggera un ordine della Reverenda Madre. Non esisteva nessun ospedale a Ballybeg, il villaggio vicino al Collegio, ma lei aveva appena telefonato al servizio medico di emergenza di Galway; si sarebbero occupati loro di trasportare suor Bernadette all’ospedale principale della città.
Madre Mary McNally, come il capitano sul ponte della nave durante una tempesta, controllava dalla sommità delle scale che ogni membro del suo “equipaggio” avesse adempito i propri compiti. L’infermiera sedeva sul pavimento accanto a suor Bernadette.
“È viva, il polso è quasi normale, ma penso che abbia subito fratture multiple e probabilmente anche una commozione cerebrale”.
Fortunatamente qualcuno aveva ricoperto la suora ferita con una soffice e calda coperta; la Madre Superiora lo notò con sollievo, non solo perché il pavimento di marmo poteva essere molto freddo, ma anche, o specialmente, perché la caduta aveva lasciato la povera suor Bernadette in una posizione piuttosto indecorosa, la sottana si era arrotolata su fino alle anche e la Madre Superiora aveva immediatamente notato che le incredibilmente tornite e voluttuose gambe della suora indossavano delle inaspettate calze autoreggenti con un raffinato bordo di merletto.
Madre McNally sospirò “Siamo tutti esseri umani con le nostre debolezze, mio Signore” e, poiché non c’era nient’altro che potesse ancora fare in quel momento, se ne tornò nel suo studio, che si affacciava sul pianerottolo e dove l’avvocato Mockford la stava aspettando.
Il giorno in cui suor Bernadette rotolò giù dallo scalone principale del Collegio di Sant’Osmanna era iniziato come ogni altro martedì. Le prime due ore di lezione si erano svolte in relativa calma, sebbene le ragazze avessero mostrato sprazzi di sporadica leggera irrequietezza, come le impercettibili scintille di elettricità che pervadono l’aria subito prima di un temporale. Durante l’ora di francese si sarebbe dovuto decidere come assegnare i ruoli principali della commedia di Molière (in realtà solo un florilegio, un estratto curato da suor Bernadette, che era realisticamente conscia dell’impossibilità non solo di far imparare a memoria alle ragazze cinque atti di testo in francese, ma anche di mantenere desta l’attenzione del pubblico per un tempo così lungo), un autentico evento, capace di movimentare un poco la calma superfice della vita quotidiana a Sant’Osmanna.
Il Collegio di Sant’Osmanna godeva di eccellente reputazione da oltre 157 anni e aveva sfornato generazioni di signorine dotate di buona cultura e raffinate maniere, i genitori delle quali si sentivano totalmente rassicurati dall’ambiente dove le loro figlie venivano traghettate oltre il rischioso fiume dell’adolescenza. Tutti sapevano che nulla d’inaspettato o pericoloso sarebbe mai potuto capitare al Collego di Sant’Osmanna.
La pioggia aveva ricominciato a cadere, o forse non aveva mai smesso. Nonostante le rispettabili dimensioni delle alte finestre, vagamente gotiche, che dominavano il vasto atrio, l’incombente penombra suggeriva l’immagine del Collegio della saga di Harry Potter piuttosto che quella della serena dimora delle Piccole Suore del Sacro Cuore, ma suor Bernadette non aveva mai visto nessun film di Harry Potter. Indossava, come sempre, una gonna a pieghe grigia chiara, che scendeva fino alla metà del suo polpaccio ben tornito, e una camicetta bianca, impeccabilmente stirata, a maniche lunghe che sbucavano fuori da un golf di lana blu, a metà sbottonato. I suoi capelli, tagliati corti, che il Concilio Vaticano II aveva liberato dall’obbligo del velo, erano leggermente scomposti, disegnando capricciose piccole spirali ai lati delle sue guance paffute e davano al suo viso la stessa attonita espressione di un vecchio cherubino.
Suor Bernadette teneva in mano una grande quantità di cartelline che contenevano i fogli freschi di stampa da distribuire alle ragazze; aveva minuziosamente scritto i testi in francese su due colonne, con una breve sinossi in inglese, per aiutare le studentesse che avrebbero dovuto memorizzarli. Come sempre era un poco in ritardo, tutte le studentesse avevano già preso posto nelle loro classi e l’atrio era completamente deserto. La suora sperava ardentemente che la Reverenda Madre Superiora fosse molto occupata nel suo studio, perché davvero non aveva alcun desiderio di sentirsi sulla schiena quegli occhi gelidi e pieni di rimprovero, che la sgridavano silenziosamente per il suo ritardo, ancora più sonoramente di una voce irata.
“Santa Caterina, ti prego, aiutami a essere una buona insegnante, a tenere sotto controllo le mie classi, ad avere un buon rapporto con le mie studentesse, a essere comprensiva e gentile con ognuna di loro e, più di ogni altra cosa, ti prego, tieni la Madre Superiora lontana dal pianerottolo proprio adesso, fino a che sarò al sicuro dentro la classe”.
Suor Bernadette stava sforzandosi di fare l’abitudine agli occhiali bifocali da quando, pochi mesi prima, dopo aver compiuto cinquanta anni, si era resa conto che la sua vista non era più esattamente quella che era stata; ma ancora non riusciva a mettere a fuoco esattamente una piccola zona indefinita piazzata più o meno a livello dei suoi piedi, lungo la linea immaginaria che separava le due parti componenti la lente dei suoi occhiali. Stava esitando tra la possibilità di correre giù freneticamente per i gradini, per non approfittarsi troppo della generosa pazienza di santa Caterina, che stava validamente tenendo occupata la Madre Superiora da qualche altra parte, e la più saggia scelta di sistemare meglio il carico di cartelline che reggeva tra le braccia e badare a dove metteva i piedi, nella leggera foschia provocata dall’effetto bifocale. Ma non ebbe il tempo di decidere, perché qualcosa – o qualcuno – prese la decisione per lei. Percepì, o le sembrò di percepire, una leggera ma decisa pressione sulla schiena e uno dei tacchi delle sue scarpe, scarpe comode con solidi tacchi quadrati, mancò il bordo del gradino che si accingeva a scendere. Si rese conto di perdere l’equilibrio e di rotolare giù, sospinta dal suo stesso slancio.
“Santa Vergine Maria” avrebbe voluto sussurrare, ma poté solo emettere un profondo grido di spavento, mentre non riusciva a frenare l’effetto della caduta o ad aggrapparsi al mancorrente, avendo entrambe le mani occupate dalle cartelline.
Suor Bernadette allargò le braccia e mollò la presa sulle cartelline solo dopo uno o due secondi, quando aveva già rotolato e rimbalzato malamente per tutta la rampa di scale. Tutti i fogli coperti dalle imperiture parole di Monsieur Jean-Baptiste Poquelin svolazzarono attorno a lei come uno stormo di colombe terrorizzate, ma Suor Bernadette non poteva vederli. Giaceva su un fianco al fondo della scalinata, sul pavimento di marmo immacolato e scintillante, e sembrava una vecchia bambola di stracci, abbandonata da una bambina capricciosa che le aveva preferito un nuovo giocattolo.
“Santa Vergine Maria, Benedetta Madre, sono qui, sono in pace, nel tuo regno celeste, mio Signore, sia fatta la tua volontà”. Ancora una volta Sorella Bernadette non fu in grado di pronunciare le parole che aveva appena formulato nel pensiero. Aprì gli occhi, sentendosi del tutto immateriale. La sua anima era piena di gioia nella contemplazione dei benedetti volti degli angeli che la guardavano; poteva ben vedere di essere circondata da angeli, che meravigliosi occhi avevano gli angeli, esattamente come si era immaginata di vederli un giorno. Per un momento ebbe la strana impressione che uno degli angeli assomigliasse pericolosamente a Fiona O’Shea, una delle sue allieve più turbolente, la stessa fiammeggiante capigliatura rossa, lo stesso perfetto piccolo naso appuntito, gli stessi scintillanti occhi blu. No, non poteva certo trattarsi di Fiona, prima di tutto Fiona non aveva nessun motivo per trovarsi ora in paradiso e poi Fiona aveva sempre un’espressione derisoria e scherzosa negli occhi, mentre gli occhi di quell’angelo erano pieni di affetto, pietà e compassione, esattamente quello che uno si aspetta da un angelo.
“Suor Bernadette, Suor Bernadette, riesce a sentirmi?” Senza dubbia era la voce di Fiona.
Un’altra voce familiare risuonò stentorea dall’alto dei cieli o, come sfortunatamente sembrava più probabile, solo dalla cima della scalinata:
“Che cosa è successo? Suor Bernadette è cosciente? Non toccatela, non muovetela. Chiamo subito un’ambulanza. Qualcuno si limiti a coprirla con una coperta, ma assolutamente non provatevi a spostarla. Fiona! Non stare lì a gingillarti, vai in infermeria a chiamare l’infermiera di turno”.
“Sono ancora in vita” pensò suor Bernadette “Sono ancora in vita, sarebbe impossibile trovare Fiona O’Shea e la Reverenda Madre in paradiso, entrambe contemporaneamente. Forse non sono ancora morta, ma morirò presto, dov’è il mio rosario e dove sono le mie braccia? Non le sento più…” e svenne di nuovo, sprofondando in una compassionevole dimensione dove lei ebbe l’impressione di sentire la ninna-nanna che la sua mamma le cantava sempre “Too-ra-loo-ra-loo-ral, Too-ra-loo-ra-li, Too-ra-loo-ra-loo-ral, hush now, don't you cry!”.
Fu assicurato che l’ambulanza sarebbe arrivata prontamente. Non c’era motive di dubitarne poiché nessuno aveva mai osato prendere alla leggera un ordine della Reverenda Madre. Non esisteva nessun ospedale a Ballybeg, il villaggio vicino al Collegio, ma lei aveva appena telefonato al servizio medico di emergenza di Galway; si sarebbero occupati loro di trasportare suor Bernadette all’ospedale principale della città.
Madre Mary McNally, come il capitano sul ponte della nave durante una tempesta, controllava dalla sommità delle scale che ogni membro del suo “equipaggio” avesse adempito i propri compiti. L’infermiera sedeva sul pavimento accanto a suor Bernadette.
“È viva, il polso è quasi normale, ma penso che abbia subito fratture multiple e probabilmente anche una commozione cerebrale”.
Fortunatamente qualcuno aveva ricoperto la suora ferita con una soffice e calda coperta; la Madre Superiora lo notò con sollievo, non solo perché il pavimento di marmo poteva essere molto freddo, ma anche, o specialmente, perché la caduta aveva lasciato la povera suor Bernadette in una posizione piuttosto indecorosa, la sottana si era arrotolata su fino alle anche e la Madre Superiora aveva immediatamente notato che le incredibilmente tornite e voluttuose gambe della suora indossavano delle inaspettate calze autoreggenti con un raffinato bordo di merletto.
Madre McNally sospirò “Siamo tutti esseri umani con le nostre debolezze, mio Signore” e, poiché non c’era nient’altro che potesse ancora fare in quel momento, se ne tornò nel suo studio, che si affacciava sul pianerottolo e dove l’avvocato Mockford la stava aspettando.